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sabato 5 maggio 2012

Solo in Dio

Solo in Dio


e solo a partire da Dio


si conosce veramente l'uomo

 

 


«Ascoltiamo ancora una volta la frase decisiva: «Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre; e offro la vita per le pecore» (10,14s).


In questa frase c'è ancora una seconda interrelazione di cui dobbiamo tenere conto. La conoscenza reciproca tra il Padre e il Figlio si intreccia con la conoscenza reciproca tra il pastore e le pecore. La conoscenza che lega Gesù ai suoi si trova all'interno della sua unione conoscitiva con il Padre. I suoi sono intessuti nel dialogo trinitario; lo vedremo di nuovo riflettendo sulla preghiera sacerdotale di Gesù. Allora potremo capire che la Chiesa e la Trinità sono intrecciate tra loro. Questa compenetrazione di due livelli del conoscere è molto importante per capire la natura della «conoscenza» di cui parla il Vangelo di Giovanni.

Applicando tutto al nostro orizzonte di vita, possiamo dire: solo in Dio e solo a partire da Dio si conosce veramente l'uomo. Un conoscersi che limita l'uomo alla dimensione empirica e afferrabile non raggiunge affatto la vera profondità dell'uomo. L'uomo conosce se stesso soltanto se impara a capirsi partendo da Dio, e conosce l'altro soltanto se scorge in lui il mistero di Dio. Per il pastore al servizio di Gesù ciò significa che egli non deve legare gli uomini a sé, al suo piccolo io.

La conoscenza reciproca che lo lega alle «pecore» a lui affidate deve mirare a introdursi a vicenda in Dio, a dirigersi verso di Lui; deve pertanto essere un ritrovarsi nella comunione della conoscenza e dell'amore di Dio. Il pastore al servizio di Gesù deve sempre condurre al di là di se stesso affinché l'altro trovi tutta la sua libertà; per questo anche egli stesso deve sempre andare al di là di se stesso verso l'unione con Gesù e con il Dio trinitario.


L’Io proprio di Gesù è sempre aperto al Padre, in intima comunione con Lui; Egli non è mai solo, ma esiste nel riceversi e ridonarsi al Padre. «La mia dottrina non è mia», il suo Io è l'Io aperto verso la Trinità.

Chi lo conosce «vede» il Padre, entra in questa sua comunione con il Padre. Proprio questo superamento dialogico presente nell'incontro con Gesù ci mostra di nuovo il vero pastore, che non si impossessa di noi, bensì ci conduce verso la libertà del nostro essere portandoci dentro la comunione con Dio e dando Egli stesso la sua vita».


(Joseph RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Città del Vaticano/Milano, Libreria Editrice Vaticana/Rizzoli, 2007, 326-328).



Grande è il tuo amore, o Dio!



Tu vuoi aver bisogno di uomini

per farti conoscere agli uomini,

e così leghi la tua azione e la tua parola divine

all'agire e al parlare di persone

né perfette né migliori degli altri.

Grande è il tuo amore, o Dio!

Non hai timore della nostra fragilità

e neppure del nostro peccato: l'hai fatto tuo,

perché fosse nostra la tua vita

che guarisce ogni male.

Grande è il tuo amore, o Dio!

Ancora rinnovi la tua alleanza

grazie a chi tra noi spezza il Pane di vita,

a chi pronuncia le parole del perdono,

a chi fa risuonare annunci di vangelo,

a chi si fa servo dei fratelli,

testimoni del tuo amore infinito

che rendono visibile il Regno.

Ti preghiamo, o Dio: fa' che queste persone

non vengano mai meno!

+ Dal Vangelo secondo Giovanni- Gv 6,52-59

+ Dal Vangelo secondo Giovanni - Gv 6,52-59La mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda.

In quel tempo, i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?».
Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda.
Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me.
Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».
Gesù disse queste cose, insegnando nella sinagoga a Cafàrnao.

Quando incontriamo nei testi biblici, in particolare nei vangeli, il termine ‘Giudei’ non si riferisce mai al popolo ebraico, ma si riferisce sempre esclusivamente ai dirigenti di questo popolo, cioè ai sommi sacerdoti, agli scribi e ai farisei. In Giovanni questo termine indica queste tre categorie di persone ancora in modo più specifico. Quindi il dibattito è con loro. Il capitolo sesto di Giovanni non presenta la cena eucaristica, ma fa comprendere la verità di quanto il Signore ci ha lasciato.
La cultura greca era ormai molto forte anche all’interno delle comunità giudaiche e l’espressione ‘mangiare la mia carne’ era inaccettabile, anche perché il verbo 'mangiare' era espresso come un masticare la carne. Ma il Signore non si fa turbare da questa loro ostinazione e rincara la dose parlando anche del sangue del Figlio dell’uomo. Il bere il sangue, già nella legge di Mosè, era una cosa proibita, ripugnante; non poteva stare neanche nel pensiero di un giudeo osservante. Eppure Gesù dice: pane e sangue. Perché? Perché mentre il pane simboleggia la vita ed io lo assumo e divento ‘pane’ per i fratelli, il sangue rappresenta la morte di Gesù. Quindi il cristiano è chiamato proprio ad assumere la passione e la morte di Gesù e diventare egli stesso un segno di un Dio che dà la vita per quelli che ama. Il pane e il sangue, essendo elementi vitali, diventano le realtà scelte da Gesù per indicare la vita che fiorisce, che è donata (pane) e la vita che è offerta (sangue) per gli uomini e per rimanere con gli uomini. Il cristiano si contraddistingue perché è capace di oblatività nei confronti dei fratelli. La oblazione è un elemento molto importante per me, per noi consacrati: non viviamo per noi stessi. La vita religiosa o il ministero al servizio se non diventa una vita ‘oblata’, offerta, è una vita che rimane in sé e muore, secca, manca di radici, non sussiste.
In Giovanni spesso è rimarcato il ‘rimanere in me’, lo sperimentare una intimità con Gesù, il vivere in una conoscenza molto intima con Lui, esistenziale e unitiva.
Chi mangia questo pane vivrà in eterno C’è una teologia molto profonda che in Giovanni viene proposta: ‘i vivi non muoiono’ e ‘i morti non risorgono’, (tu sei morto e poi risorgi)… no; muore il ‘bios’, il biologico. Vale a dire che c’è una continuità di vita che non si interrompe mai. Se uno vive in offerta di se stesso, in oblazione, se uno mette il bene dell’altro al centro della sua vita non farà mai l’esperienza della morte perché è collocato nella vita interiore, nella Vita che non muore, nella vita di Dio. Chi si accosta a Gesù in questo modo esperienziale e mette il bene dell’altro a sfondo della sua vita non farà mai l’esperienza della morte interiore, che ci separa dal massimo Bene che è Gesù.
Ci dia il Signore questo desiderio: che la vita sia una vocazione che si attualizza in oblazione, in una vita donata, in una vita offerta. Come il seme che si trasforma e genera vita.
Cari saluti. Sr. Ivana

+ Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 3,16-21)


+ Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 3,16-21)

Dio ha mandato il Figlio nel mondo, perché il mondo sia salvato per mezzo di lui.

In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio.
E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce,
perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio».
In questi giorni meditiamo nel Vangelo il lungo dialogo di Gesù con Nicodemo.

Il personaggio di Nicodèmo compare nella Bibbia solo 3 volte, ed è il vangelo di Giovanni che ne parla in queste tre occasioni:

1. Va da Gesù di notte (Gv 3,1 oppure Gv 3: 1)

2. Difende Gesù dai farisei (Gv 7,50 oppure Gv 7: 50)

3. Porta Gesù morto al sepolcro (Gv 19,39 oppure Gv 19: 39)


Il Vangelo di tutta la settimana riprende a tratti questo dialogo. Dio manda il Figlio unigenito. Sappiamo che nel linguaggio semitico “unigenito” non ha il significato di “figlio unico” come intendiamo noi, indica piuttosto il Figlio verso il quale il Padre comunica, riversa tutto se stesso. Infatti nella cultura semitica “figlio” non è inteso come colui che ha il sangue del padre, il consanguineo, ma è colui che sempre più assomiglia al padre. Guardando a Gesù comprendiamo “l’agire del Padre”. Gv 1,18 “Nessuno ha mai visto Dio; l'unigenito Figlio, che è nel seno del Padre, è colui che lo ha fatto conoscere”. “Chi vede me, vede il Padre... Io e il Padre siamo una cosa sola”.

Giovanni riserva all’altro mondo l’incontro reale con Dio “allora saremo simili a Lui, perchè lo vedremo così come egli è” (1Gv 3,2)

In questo versetto l’evangelista sottolinea con forza che solo Gesù rivela Dio, quel Dio che nessuno ha mai veduto, ma che ha veduto Lui solo perchè rimane sempre nel seno del Padre: con l’incarnazione il Logos non ha cessato mai di essere in comunione col Padre. Cristo, Parola eterna del Padre, è quaggiù sulla terra l’unico autentico Rivelatore dei misteri divini.


"Abbia la vita eterna": non si intende qui ‘la vita eterna’ di quando chiuderemo gli occhi in questo mondo, quella di poi. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Con l'espressione ‘vita eterna’, termine giovanneo, si intende quella vita che già inizia in questo mondo e che assume una ‘qualità’ così importante, così forte da sfondare anche il mondo della morte, questa barriera che fa paura. Quindi Dio ci fa vincere la morte, ma anche la paura della morte, e vita eterna è quella che ha una tale qualità e forza da superare il ‘bios’ il biologico e collocarsi nella vita stessa di Dio.



Chi crede in lui non è condannato
Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui”.

Un tema caro a Giovanni è il mettere a confronto LUCE E TENEBRE. E’ come se Gesù qui dicesse: “Voi scribi e farisei avete avuto la possibilità di avere una illuminazione, ma avete preferito le tenebre a questa luce”. Quando una persona si abitua a vivere in un mondo sotterraneo, nell’oscurità, è chiaro che si sente accecata dalla luce, non è capace di vedere bene nemmeno le cose normali, la luce gli dà fastidio. La luce invece ha una sua forza, una sua potenza, genera vita perché senza la luce non ci può essere vita. E’ questo che Gesù vuole dire a Nicodemo. Quindi c’è anche per noi l’invito ad essere figli della luce. E’ per questo che dobbiamo esercitarci ad essere ‘figli della luce’, ad assaporare tutta la pienezza di questa ‘vita’ in Dio.

Ecco l’antifona al Magnificat di oggi:

Chi fa la verità, viene alla luce:
e appariranno le sue opere di figlio di Dio, alleluia.


Cerchiamo di avere questo desiderio di luce, di eternità, perché possiamo accedere al massimo della nostra potenzialità di amore. Come fa il Padre: ha dato suo Figlio per noi. Così siamo chiamati a fare anche noi: abbiamo la possibilità di innalzare la nostra ‘soglia’ dell’amore, la soglia del dono attraverso il servizio ai fratelli.


Nicodemo alla fine è riuscito a decidersi . Giovanni infatti racconta che alla sepoltura di Gesù vi andò anche Nicodemo, 'quello che in precedenza era andato da lui di notte' (Gv 19,39). Naturalmente qui ‘la notte’ è da leggersi in senso teologico, cioè come tenebra, come oscurità. Proprio davanti alla croce Nicodemo si è deciso ad uscire dalle tenebre della sua incertezza. E così in quel momento ultimo si sono realizzate le parole che Gesù gli aveva detto in principio, quando era andato da lui di notte: “come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell'uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna” (Gv 3,14s.). Appunto in tal modo - volgendo lo sguardo al Figlio dell'uomo innalzato - Nicodemo è uscito dalle sue incertezze ed ha affrontato con coraggio la vita.
E' lo stesso miracolo che può accadere anche a noi: perché anche noi in questo Tempo Pasquale possiamo imparare dal Signore crocifisso a vincere le nostre incertezze, attraversando la vita come collaboratori nel Regno di Dio, come missionari del suo amore.


Ci dia il Signore di assumere questa ‘mentalità’ di luce, di fare le opere di Dio, e di sentire che assieme a Dio creiamo ‘vita’ intorno a noi, siamo cooperatori con Lui, cooperatori della verità e del Regno che egli è venuto ad instaurare. Ma questo ci sarà dato se costantemente ‘rinasceremo dall’alto’. “In verità vi dico: Se uno non rinasce dall’alto non può entrare nel regno di Dio”. Il pensiero di Gesù è chiaro: è necessario cambiare radicalmente, è necessario ‘rinascere!’

E' una parola forte: rinascere da Dio, dall’alto, dallo Spirito!


E questo che viviamo liturgicamente è il tempo dello Spirito.






Nicodemo andò da Gesù, di notte




Tutti sospiriamo per il cielo dove sta Dio,

eppure abbiamo la possibilità di stare in cielo fin da questo momento,

di essere felici con Dio in questo stesso istante.

Essere felici con lui in questo stesso istante significa:

amare come lui ama,

aiutare come lui aiuta,

dare come lui dà,

servire come lui serve,

salvare come lui salva,

restare con lui ventiquattro ore al giorno,

toccandolo sotto le sue sembianze di sofferenza.

(Madre Teresa di Calcutta)




Cari saluti. Sr. Ivana

+ Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 26,14-25)


+ Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 26,14-25) Giuda, il traditore, disse: «Rabbì, sono forse io?» In quel tempo, uno dei Dodici, chiamato Giuda Iscariòta, andò dai capi dei sacerdoti e disse: «Quanto volete darmi perché io ve lo consegni?». E quelli gli fissarono trenta monete d’argento. Da quel momento cercava l’occasione propizia per consegnare Gesù.
Il primo giorno degli Ázzimi, i discepoli si avvicinarono a Gesù e gli dissero: «Dove vuoi che prepariamo per te, perché tu possa mangiare la Pasqua?». Ed egli rispose: «Andate in città da un tale e ditegli: “Il Maestro dice: Il mio tempo è vicino; farò la Pasqua da te con i miei discepoli”». I discepoli fecero come aveva loro ordinato Gesù, e prepararono
la Pasqua.
Venut
a la sera, si mise a tavola con i Dodici. Mentre mangiavano, disse: «In verità io vi dico: uno di voi mi tradirà». Ed essi, profondamente rattristati, cominciarono ciascuno a domandargli: «Sono forse io, Signore?». Ed egli rispose: «Colui che ha messo con me la mano nel piatto, è quello che mi tradirà. Il Figlio dell’uomo se ne va, come sta scritto di lui; ma guai a quell’uomo dal quale il Figlio dell’uomo viene tradito! Meglio per quell’uomo se non fosse mai nato!». Giuda, il traditore, disse: «Rabbì, sono forse io?». Gli rispose: «Tu l’hai detto».


Matteo mette in evidenza che è proprio Giuda che va dai capi per ‘consegnare’ Gesù al prezzo di trenta monete d’argento. Il commento di Gesù: Meglio per quell’uomo se non fosse mai nato! – non è una maledizione ma è un modo di esprimere la sofferenza nel vedere che questo suo discepolo non riesce ad aprirsi alla vita, che rimane incompleto, incompiuto, e nella Bibbia ad una persona che rimane incompiuta viene detto: “E’ meglio che non fosse mai nata!” - E’ dunque un semitismo che Matteo usa.

E’ interessante che la ‘compera’ di un uomo in Israele costava 50 monete d’oro, quella della donna 30, quella dello schiavo 30. Gesù dunque viene venduto al prezzo di uno schiavo. Questo mette in evidenza che tipo di reputazione avesse Gesù presso i capi del popolo. Quindi si è trattato di un acquisto veramente al ribasso: per loro Gesù non meritava nemmeno di essere considerato come un uomo. Ci viene certamente da riandare alle parole del Profeta Isaia: Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia, era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima”. (Is 53,3)

In verità io vi dico Questa espressione di Gesù non indica solo una solennità in quello che sta per dire, ma dice anche una sorta di ‘amen’, di affidamento al Padre per quello che sta dicendo.

Altro aspetto importante: Gesù fa Pasqua con tutti gli apostoli e a tutti offre il servizio della lavanda dei piedi, mette tutti sullo stesso piano; non si turba, pur sapendo che c’è uno che lo tradisce.

«Sono forse io, Signore?» Tutti si sentivano interpellati, tutti si sentivano in colpa; tutti erano ‘discordi' con Gesù circa il suo modo di affrontare Gerusalemme: Gesù aveva annunciato che non sarebbe andato come trionfatore, ma per affrontare la passione. Nel cuore di ogni discepolo è celato il dubbio di Giuda: ‘Sono forse io’? Ancora non c’è chiarezza nel loro cuore. Gesù però non vuole svelare chi sarà il traditore perciò dice: “Colui che ha messo con me la mano nel piatto. La mano nel piatto la mettevano tutti perché nelle cene importanti si disponevano intorno alla mensa e attingevano tutti al piatto centrale. (Ai tempi in cui viveva Gesù si era soliti mettere nel tavolo alcuni vassoi comuni nei quali si intingeva il pane o le erbe amare).

Gesù non vuole svelare il traditore finchè Giuda stesso rivelerà sé stesso: «Rabbì, sono forse io? Gli rispose: «Tu l’hai detto». Da qui capiamo quanto il Signore abbia amato Giuda. In Giovanni (Gv 13,21-33.36-3) è descritto così: «Signore, chi è?». Rispose Gesù: «È colui per il quale intingerò il boccone e glielo darò». E, intinto il boccone, lo prese e lo diede a Giuda, figlio di Simone Iscariòta. Allora, dopo il boccone, Satana entrò in lui. Si vede proprio da questo gesto, che il Signore compie, quanto sia stata grande la sua sollecitudine per aprire il cuore a Giuda. Mi raccontavano che ancora oggi nel deserto siriano, quando arriva un ospite importante o quando si vuole solennizzare un momento di incontro, si fa sdraiare l’ospite su una specie di triclinio, di divano, nella propria casa, si intinge il pane nel piatto centrale in una specie di salsetta, quindi lo si offre alla persona più importante che è alla tavola e che si vuole onorare. Vediamo qui il tentativo di Gesù, fino all’ultimo, di passare vita, di offrire amicizia, di dare amore. Ma Giuda non era aperto all’amore. Questo significa l'espressione: Satana entrò in lui . Giuda si è chiuso all’amore, alla riconciliazione, al perdono.

Giovanni dice ancora: Egli, preso il boccone, subito uscì. Ed era notte. Il buio, in senso teologico, è quello interiore, quello della coscienza, che ormai soggioga Giuda e lo trascina alla deriva perché egli ancora non riesce a comprendere il gesto ultimo, estremo, di Gesù per aprirgli gli occhi del cuore.

Chiediamo al Signore di essere attenti ai piccoli ‘bocconi’ che ci vengono offerti ogni giorno dalla sua Provvidenza. Il principale di questi è l’Eucarestia. Ci aiuti Lui a saper arare il nostro campo, a saper togliere i massi e i sassi che ci impediscono il procedere dell’aratro. Solo così avremo poi la gioia di vedere le spighe nascere e diventare pane fragrante: la presenza del Signore in mezzo a noi, pane che doniamo anche ai nostri fratelli.


Cari saluti. Sr. Ivana

Unzione di Betania (14,3-9)--(15,40-41.47).


Con la celebrazione delle Palme si apre

la grande e santa settimana della passione, morte e risurrezione del Signore.

La settimana santa non è semplicemente un momento importante dell'anno liturgico;

è la sorgente di tutte le altre celebrazioni dell'anno.

Tutte, infatti, si riferi­scono al mistero della Pasqua

da cui scaturisce la salvezza nostra e del mondo

Questi santi giorni si aprono con la memoria dell'ingresso di Gesù in Gerusalemme.

L'ultima tappa sono Betfage e Betania, paesi sul monte degli Ulivi, menzionati nel Vangelo di Marco.

Betania era il villaggio presso Gerusalemme dove Gesù si ritirava la notte

per non esserecatturato.


Il Vangelo: introdotto da due versetti che svelano l'intenzione omicida di scribi e sacerdoti,

tenuta nascosta per timore della folla,

è racchiuso tra due momenti - anticipo e conclusione del dramma -

che vedono protagoniste le donne: l'unzione di Betania (14,3-9)

e la presenza delle donne ai piedi della croce e al sepolcro (15,40-41.47).



Unzione di Betania (14,3-9)
Ha unto in anticipo il mio corpo per la sepoltura
Gesù si trovava a Betània, nella casa di Simone il lebbroso. Mentre era a tavola, giunse una donna che aveva un vaso di alabastro, pieno di profumo di puro nardo, di grande valore. Ella ruppe il vaso di alabastro e versò il profumo sul suo capo. Ci furono alcuni, fra loro, che si indignarono: «Perché questo spreco di profumo? Si poteva venderlo per più di trecento denari e darli ai poveri!». Ed erano infuriati contro di lei. Allora Gesù disse: «Lasciatela stare; perché la infastidite? Ha compiuto un’azione buona verso di me. I poveri infatti li avete sempre con voi e potete far loro del bene quando volete, ma non sempre avete me. Ella ha fatto ciò che era in suo potere, ha unto in anticipo il mio corpo per la sepoltura. In verità io vi dico: dovunque sarà proclamato il Vangelo, per il mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche quello che ha fatto».
A differenza del testo di Giovanni la donna qui (come in Matteo) è anonima, mentre è nominato il padrone di casa, un certo Simone, e il luogo, Betania, il villaggio presso Gerusalemme dove Gesù si ritirava la notte per non essere catturato. Comuni gli elementi essenziali del racconto:
  • la sottolineatura dello spreco, con l'indicazione del prezioso alabastro e del costosissimo profumo, oggetti di lusso che sembrano contrastare con lo stile di vita di Gesù;
  • lo scandalo, più o meno sincero, dei discepoli, con l'accenno (forse strumentale) ai poveri;
  • la sorprendente reazione di Gesù, che accetta l'omaggio e rimprovera i discepoli: la donna ha compiuto una buona opera;
  • i poveri sono una scusa, infatti ci sarà sempre tempo per far loro del bene;
  • il gesto della donna ha soprattutto significato profetico, annuncia la sepoltura di Gesù.
Il valore perenne del gesto è sancito dalla consegna alla memoria («sarà narrato in memoria di lei»: presente in Matteo, non in Giovanni).
Al terzo accenno della Passione (racconto del tradimento di Giuda, vv. 10-11) seguono i preparativi della Cena pasquale (vv. 12-16); tutto appare già predisposto, come in un disegno dall'alto, fin nei minimi particolari, e questa Pasqua si preannuncia già come unica.
Ha compiuto un’azione buona verso di me.
La domanda che viene da farsi istintivamente è sul significato dell'affermazione: "I poveri li avete sempre con voi". Gesù non intendeva certo dire che non c'è nulla da fare di fronte alla povertà. Di fatto Gesù, volendo definire l'azione della donna, che è criticata dai presenti dice:
Ha compiuto un’azione buona verso di me.
Il testo italiano fa leggere 'azione buona', ma il testo greco dice 'opera bella'.
Le opere belle sono quelle non 'esteriori',
sono interiori,
degne dell'uomo,
quelle in cui l'uomo si esprime al meglio,
sono lo scegliere di non servire il denaro,
l'essere di cuore semplice,
l'essere operatori di pace.
Quella della donna è un'opera bella perchè inaspettata,
oroginale, creativa,
ed ha la bellezza dei veri gesti umani.
E Gesù dice che quell'opera è bella perchè è profetica,
"ha unto in anticipo il mio corpo per la sepoltura"
è entrata nela Sua morte, sepoltura e resurrezione.
L'unzione di Betania Cappella della “Casa incontri cristiani”. Capiago (CO)

Cari saluti. Sr. Ivana

+ Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 10,31-42)


+ Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 10,31-42)
Cercavano di catturarlo, ma egli sfuggì dalle loro mani.

In quel tempo, i Giudei raccolsero delle pietre per lapidare Gesù. Gesù disse loro: «Vi ho fatto vedere molte opere buone da parte del Padre: per quale di esse volete lapidarmi?». Gli risposero i Giudei: «Non ti lapidiamo per un'opera buona, ma per una bestemmia: perché tu, che sei uomo, ti fai Dio».
Disse loro Gesù: «Non è forse scritto nella vostra Legge: "Io ho detto: voi siete dèi"? Ora, se essa ha chiamato dèi coloro ai quali fu rivolta la parola di Dio - e la Scrittura non può essere annullata -, a colui che il Padre ha consacrato e mandato nel mondo voi dite: "Tu bestemmi", perché ho detto: "Sono Figlio di Dio"? Se non compio le opere del Padre mio, non credetemi; ma se le compio, anche se non credete a me, credete alle opere, perché sappiate e conosciate che il Padre è in me, e io nel Padre». Allora cercarono nuovamente di catturarlo, ma egli sfuggì dalle loro mani.
Ritornò quindi nuovamente al di là del Giordano, nel luogo dove prima Giovanni battezzava, e qui rimase. Molti andarono da lui e dicevano: «Giovanni non ha compiuto nessun segno, ma tutto quello che Giovanni ha detto di costui era vero». E in quel luogo molti credettero in lui.


Per quali di queste opere buone volete lapidarmi? Gesù ormai sa che c’è una totale incomunicabilità con i giudei. Col termine ‘giudeo’, in questi contesti evangelici, non si intende il popolo giudaico in quanto tale, ma unicamente i suoi rappresentanti che sono in primis il sommo sacerdote, poi gli scribi e i farisei. E’ questa categoria di persone che non riesce, non vuole riconoscere la realtà di Gesù. Allora Gesù li porta a riflettere su un terreno molto più semplice: a guardare alle opere che lui compie. Anche in Isaia è detto che il messia compie le opere di Dio. Gesù è anche vero Messia del Signore. Lo attestano le opere che lui compie.

Ma il loro ragionamento è: “Noi non ti condanniamo per le opere, ma perché ti dichiari Figlio di Dio” - ‘Tu che sei un uomo ti fai ‘Figlio di Dio?’

E’ necessario invertire le cose: Gesù è la Parola di Dio che si è fatta carne! Questo è il salto di qualità che non riescono assolutamente a fare. Gesù cita un salmo (Sl 82, 6) : “Non è scritto nella vostra Legge che…: voi siete dèi?” Gesù prende le distanze dalla legge antica perché in lui ora la legge si compie. Egli ricorda ai giudei che la legge si riferisce solo agli uomini, anche se uomini in autorità e prestigio, - come dei -. I giudici terreni devono devono agire con imparzialità e giustizia vera, dato che anche i giudici un giorno dovranno stare davanti al Giudice.

Il punto di Gesù è questo: “Voi mi accusate di bestemmia perché mi sono definito ‘Figlio di Dio’; le vostre stesse Scritture applicano lo stesso termine ai magistrati in generale. Se coloro che sono in una posizione divinamente affidatagli può essere considerato ‘dio’, quanto più può l’Unico che Dio ha scelto e mandato!!

“Voi siete dei; voi tutti figli dell’Altissimo.” (Sl 82, 6-7)

Riconoscere la divinità di Gesù comportava tutto lo ‘scardinamento’ del senso del tempio di Gerusalemme che era poggiato su una visione di un Dio giudice, che castiga, che punisce; c’era sempre di mira la salvaguardia del potere della casta preposta. La loro ottusità era dovuta all’ancoraggio all’interesse personale, al piccolo spazio costruito all’interno. Chi invece costruisce comunione è simile nell’agire all’agire di Gesù.

E Gesù è venuto a spaccare le mura, a costruire comunione. Il tempio era una costruzione grandissima con varie aree, zone diverse, con vari accessi: l’accesso al cortile dei gentili, a quello delle donne, a quello degli uomini, a quello riservato ai sacerdoti e poi a quello del sommo sacerdote. Tempio fatto unicamente di mura divisorie. La Pasqua allora non è soltanto quella che si riferisce al passaggio dalla pasqua ebraica a quella cristiana, al passaggio dalla morte alla resurrezione, è certamente questo, ma la Pasqua autentica è l’abbattimento di ogni divisione. E’ la costruzione di ponti di comunicazione perché, e questo è il nucleo del discorso, perché si vede il nuovo agire, quello di Dio, le opere sue sono di misericordia e perdono.

Chiedo al Signore che mi dia questa sapienza di essere donna che irradia il Volto del Signore, il volto del Padre tenero, accogliente, che tende la sua mano perché io possa raggiungere la pienezza. Che tutti noi possiamo essere portati, come un bimbo in braccio al padre e alla madre, a questa gloriosa Presenza che vuole affidarci il pegno non solo della vita eterna, ma della stessa Vita che è Dio!


Cari saluti - sr. Ivana

+ Dal Vangelo secondo Giovanni (7,1-2.10.25-30)


+ Dal Vangelo secondo Giovanni (7,1-2.10.25-30)


In quel tempo, Gesù se ne andava per la Galilea; infatti non voleva più percorrere la Giudea, perché i Giudei cercavano di ucciderlo.
Si avvicinava intanto
la festa dei Giudei, quella delle Capanne. Quando i suoi fratelli salirono per la festa, vi salì anche lui: non apertamente, ma quasi di nascosto.
Alcuni abitanti di Gerusalemme dicevano: «Non è costui quello che
cercano di uccidere? Ecco, egli parla liberamente, eppure non gli dicono nulla. I capi hanno forse riconosciuto davvero che egli è il Cristo? Ma costui sappiamo di dov’è; il Cristo invece, quando verrà, nessuno saprà di dove sia».
Gesù allora, mentre insegnava nel tempio, esclamò: «Certo, voi mi conoscete e sapete di dove sono. Eppure non sono venuto da me stesso, ma
chi mi ha mandato è veritiero, e voi non lo conoscete. Io lo conosco, perché vengo da lui ed egli mi ha mandato».
Cercavano allora di arrestarlo, ma nessuno riuscì a mettere le mani su di lui, perché
non era ancora giunta la sua ora.


E’ un brano composito e un po’ difficile dato che vi si presentano vari temi. Innanzitutto il rapporto di Gesù con la festa ebraica, la più importante, la Festa delle Capanne. Era prima legata al raccolto delle messi, prima dell’esilio, e poi divenuta festa del passaggio dall’Egitto ad Israele, quando la gente doveva mettersi sotto le capanne. Dunque è la festa che ancora oggi per gli ebrei è significativa. Gesù non vuole andare a questa festa. I discepoli lo volevano invece perché era un’occasione di manifestare la sua regalità ‘politica e giuridica’ come loro ancora la intendevano. Ma Gesù non è ‘il figlio di Davide’, non appartiene alla genealogia umana, e non ci vuole andare: egli è Figlio di Dio, esula da quel popolo.

E quindi quando i suoi fratelli , e qui si intende il clan di Gesù, salirono per la festa, vi salì anche lui: non apertamente, ma quasi di nascosto. Se ne deduce la resistenza molto profonda che Gesù ha. Sappiamo che al tempo di Gesù il linguaggio era molto povero, quindi per indicare un’appartenenza di clan tribale, si usa il termine ‘fratelli’.

Chi mi ha mandato è veritiero- E’ come se Gesù dicesse: “Voi dite di sapere di dove sono, ma non lo afferrate ancora.” E’ l’elemento principale che Giovanni vuol far comprendere.

Voi mi conoscete, ma non conoscete da dove vengo realmente e non conoscete colui che mi ha mandato. «Voi non lo conoscete. Io lo conosco, perché vengo da lui ed egli mi ha mandato». E’ il capo di accusa più grosso che Gesù fa ai capi. Voi vi fermate alla conoscenza terrena, ma non siete aperti alla conoscenza reale di Dio. Voi credete di conoscere quando la vostra intelligenza è soddisfatta, ma non capite che occorre andare oltre, cercando non un discorso sul ‘vero’, ma la verità. E la verità viene sempre dall’alto, dal di fuori; la conoscenza viene dal cuore quando ci sentiamo in rapporto con l’altro. E’ il cuore che conosce. Uno sguardo rivolto al cielo costituisce la migliore indagine per comprendere la fonte della nostra salvezza.

Cercavano allora di arrestarlo…ma non era ancora giunta la sua ora.

E’ il tema dell’ “ora”, l’ora della croce come momento rivelativo fondamentale di chi è Gesù. Lo troviamo nel Vangelo di domani.

Invece nel tratto successivo, quello di oggi, troviamo il dibattito sulla messianicità di Gesù.


+ Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 7,40 – 53)

In quel tempo, all’udire le parole di Gesù, alcuni fra la gente dicevano: «Costui è davvero il profeta!». Altri dicevano: «Costui è il Cristo!». Altri invece dicevano: «Il Cristo viene forse dalla Galilea? Non dice la Scrittura: “Dalla stirpe di Davide e da Betlemme, il villaggio di Davide, verrà il Cristo”?». E tra la gente nacque un dissenso riguardo a lui.
Alcuni di loro volevano arrestarlo, ma nessuno mise le mani su di lui. Le guardie tornarono quindi dai capi dei sacerdoti e dai farisei e questi dissero loro: «Perché non lo avete condotto qui?». Risposero le guardie: «Mai un uomo ha parlato così!». Ma i farisei replicarono loro: «Vi siete lasciati ingannare anche voi? Ha forse creduto in lui qualcuno dei capi o dei farisei? Ma questa gente, che non conosce la Legge, è maledetta!».
Allora Nicodèmo, che era andato precedentemente da Gesù, ed era uno di loro, disse: «La nostra Legge giudica forse un uomo prima di averlo ascoltato e di sapere ciò che fa?». Gli risposero: «Sei forse anche tu della Galilea? Studia, e vedrai che dalla Galilea non sorge profeta!». E ciascuno tornò a casa sua.

Parola del Signore


E’ il dibattito sulla messianicità di Gesù in cui si mettono in luce aspetti già visti nei brani precedenti:

- la presunzione di coloro che “sanno”;

- il leggere ‘alla lettera’ i testi precedenti alle interpretazioni date dalla Scrittura stessa;

- la ristrettezza interpretativa che viene a danneggiare la conoscenza stessa della legge.

In poche parole comunque i dottori della Legge non riescono a cogliere l’essenza di Gesù. In realtà il verdetto è già stato pronunciato: Gesù non fa parte dei loro, non ha studiato nelle loro scuole, non si conforma alle loro interpretazioni e quindi è un eretico. Contro tutto e contro tutti, Nicodemo riporta una legge fondamentale: il dare a tutti la possibilità di parlare per difendersi dalle accuse. Ma il disprezzo per gli umili della terra impedisce ai loro occhi di vedere. Studia, e vedrai che dalla Galilea non sorge profeta!


Anche per noi vale questo: quante volte ci capita di confondere Dio con le nostre interpretazioni? Quante volte mettiamo le nostre opinioni al posto delle cose essenziali che riguardano lo spirito? Ma “Gesù parla come nessun altro!” Basta che lo sappiamo ascoltare. Arriveremo ad una conoscenza ‘sperimentale’ che racconta il nostro rapporto con Dio.

Il tempo quaresimale, che ormai volge verso la Settimana Santa, ci può portare non a ‘fare delle cose per Dio’, ma a scoprire, nei meandri della Parola di Dio e nel servizio verso i fratelli, chi è veramente il Signore.

+ Dal Vangelo secondo Luca (Lc 15,1-3.11-32)

+ Dal Vangelo secondo Luca (Lc 15,1-3.11-32)
Questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita.


In quel tempo, si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Ed egli disse loro questa parabola:
«Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».

Parola del Signore


Quello della parabola è un padre che ci mostra la paternità e maternità di Dio, la commozione viscerale che bene esprime il verbo misereor ("aver pietà") e cor ("cuore"): "un cuore che sa essere compassionevole" e che ci descrive anche Rembrandt in questa sua ‘immagine’ dalle mani, una materna ed una paterna.

Nella Sacra Scrittura il termine "misericordia" traduce la parola ebraica rahamìm plurale di rehemche significa "utero", più genericamente i "visceri". Ecco, perché nella lingua ebraica il termine "misericordia" è sinonimo di tenerezza, di amore materno, viscerale, un affetto profondo del cuore. Avere misericordia significa perciò amare l'altro con un amore compassionevole, pronto al perdono, pronto a chinarsi su chi ha bisogno, avere il cuore rivolto al misero.

In ebraico misericordia è hesed (èleos, in greco) e ha le sue radici nell'alleanza tra due parti e nella conseguente solidarietà di una parte verso quella in difficoltà.

Ha sempre per fondamento la fedeltà ad un impegno. Vuole tradurre una bontà cosciente e voluta, come risposta ad un dovere interiore, come fedeltà a se stesso. La misericordia, quindi, si trova fra la compassione e la fedeltà. (Is 49,15).

Ecco, perché nella lingua ebraica il termine "misericordia" è sinonimo di tenerezza, di amore materno, viscerale, un affetto ... La parola greca λεος (eleos) indica il sentimento di intima commozione.


Questo significato, così spiegato, è interessante perché, dice il testo, “gli corse incontro”.

Per il semita non era un atteggiamento idoneo, era una caduta di stile. Ma qui abbiamo l’icona di un padre che si abbassa pur di far capire al figlio quanto bene gli voleva. Infatti compie una serie di gesti importanti: il porsi in questo atteggiamento di ‘corsa’ e il donargli il bacio dell’accoglienza e della riconciliazione, successivamente il dargli l’abito più bello… Vuol dire che gli ridà la sua dignità, gli restituisce quanto lui aveva preteso, in quanto come figlio minore non aveva diritto ad alcuna eredità né da un punto di vista legale né da un punto di vista religioso.

E poi gli rende l’anello al dito che portava inciso il sigillo del casato come riaccoglienza nella casa che egli aveva profondamente rifiutato. Ma il gesto più profondo è forse il rimettergli i sandali ai piedi. Soltanto lo schiavo andava scalzo. Non solo gli ridona dunque dignità e autorità dentro il casato, ma gli ridona la libertà perduta, lo reintegra nella sua pienezza.

Comprendiamo in questo contesto che il peccato non è una offesa al padre. Il peccato è un limite che noi poniamo a noi stessi, verso noi stessi e nel rapporto con gli altri.


Chiedo a Dio di cogliere questi segnali importanti della sua bontà verso di me nel percorso che giorno per giorno conduco. Sono gesti che Gesù vuol vedere ripetuti dal suo discepolo se vuol assomigliare al Maestro: ridare dignità alle persone, la libertà dovuta.

Il tema del perdono è legato alla libertà ridonata al fratello, al reinserirlo nel circuito dell’accoglienza, della logica dell’incontro. E’ questa la Pasqua che già ci si presenta: buttare via il peccato che è sempre un sasso che poniamo dentro le nostre tasche e che appesantisce il nostro cammino.


Cari saluti. Sr. Ivana